Cosa sappiamo sul long-COVID-19

Ora che ci siamo lasciati alle spalle la fase di emergenza della pandemia di COVID-19 dobbiamo fare i conti con le conseguenze a lungo termine.

Circa il 40% delle persone che hanno avuto il COVID-19 negli ultimi tre anni ha continuato ad avere dei sintomi addirittura mesi dopo l’infezione iniziale. Questa condizione venne chiamata “long-COVID” dai pazienti stessi, i primi a dare visibilità a questa situazione tramite i social, ed è ora ufficialmente definita “post-COVID-19 condition” (PCC, condizione post-COVID-19).

Quali sono i sintomi del long-COVID?

I sintomi più comuni del long-COVID sono affaticamento, affanno, dolori diffusi, tachicardia, alterazione del senso del gusto e dell’olfatto, mal di testa e una lunga lista di disturbi neurologici e psicologici. I pazienti spesso usano l’espressione “brain fog” – o mente annebbiata – per descrivere la difficoltà a concentrarsi e la perdita di memoria a breve termine. Anche disturbi del sonno, ansia e depressione sono sintomi riportati con frequenza.

Questi sintomi possono o continuare dopo l’infezione acuta (quando ormai il test per il COVID-19 risulta negativo) o possono comparire settimane dopo la fine della malattia, anche se questa non si era manifestata in forma grave.

Chi è più a rischio di long-COVID?

Considerando che centinaia di migliaia di persone sono state infettate da SARS-CoV-2, il numero di persone che rischiano di avere conseguenze a lungo termine è elevatissimo. La PCC rappresenta quindi non solo un problema sanitario ma anche sociale, perché peggiora la qualità della vita delle persone colpite riducendone la capacità di lavorare e di partecipare in altre attività sociali. La PCC è più frequente nelle donne, mentre le probabilità di avere una forma grave di COVID-19 è più alta negli uomini.

Quali sono le cause del long-COVID?

Le cause e i meccanismi della PCC non sono conosciuti a livello molecolare, per cui non è ancora dispoinibile una cura per i pazienti che ne soffrono. Gli studi sugli animali sono stati estremamente utili per capire i meccanismi del COVID-19 e per testare vaccini e antivirali, e ora ci stanno aiutando a capire alcuni aspetti della PCC. Nessuno dei modelli animali disponibili finora riproduce perfettamente la malattia umana, ma studi condotti su varie specie hanno prodotto risultati molto interessanti.

Studiare gli animali per capire gli effetti del long-COVID sul cervello

Criceti e topi hanno permesso lo studio del COVID-19 fin dall’inizio della pandemia.

È stato scoperto che criceti infettati con SARS-CoV-2 esprimono in modo alterato gruppi specifici di geni nel cervello un mese dopo l’infezione, quando il virus non è più presente. Questi criceti, rispetto a quelli che non hanno mai avuto l’infezione, esprimono alti livelli di geni convolti nell’infiammazione. Un altro studio ha rilevato segni di infiammazione nel cervello come l’accumulo delle forme modificate di due proteine chiamate tau e alfa sinucleina due settimane dopo l’infezione con SARS-CoV-2. Questi risultati sono particolarmente interessanti perché l’accumulo di tau e alfa sinucleina modificate è tipico di malattie neurodegenerative (Parkinson e Alzheimer), e suggeriscono meccanismi simili tra queste malattie e la PCC.

Inoltre, con degli studi comportamentali si è visto che i criceti infettati sono meno attivi e hanno una maggiore sensibilità al dolore, ricordando alcuni dei sintomi riportati dai pazienti con PCC, forse dovuti a una prolungata infiammazione del sistema nervoso.

In studi simili svolti sui topi è stata osservata un’infiammazione persistente del cervello dopo l’infezione con SARS-CoV-2, anche se i sintomi respiratori erano stati lievi e senza che ci fossero tracce di virus nel cervello. Anche in questo caso l’infiammazione era accompagnata da modifiche dell’attività di alcuni geni come nei disturbi cognitivi tipici dell’Alzheimer e dell’invecchiamento.

I vaccini proteggono dal long-COVID?

La maggior parte di questi studi sono stati svolti su animali non vaccinati che sono stati infettati in laboratorio con la variante iniziale di SARS-CoV-2. Sappiamo bene però che dall’inizio della pandemia sono comparse molte varianti diverse e che un numero sempre maggiore di persone ha ricevuto una o più dosi del vaccino anti COVID-19, potenziando la capacità del nostro corpo di combattere l’infezione.

Ciò fa sorgere due domande fondamentali:

  1. Le differenze tra varianti influiscono sulla probabilità di avere long-COVID-19 dopo l’infezione e sull’intensità dei sintomi?
  2. Visto che si può avere il long-COVID anche quandosi ha avuto l’infezione dopo essere stati vaccinati, la malattia in questo caso è diversa da quella di individui non vaccinati?

Che studi sono necessari per capire il long-COVID?

Un solo modello animale non sarebbe sufficiente per comprendere appieno il long-COVID-19 e capire come affrontarlo; servirebbero tante combinazioni di varianti, status vaccinali e caratteristiche genetiche.

Non si tratta di un compito facile: così tanti fattori da considerare e tale varietà di sintomi richiedono esperimenti molto complessi. Il gruppo di cui faccio parte insieme ad altri membri del progetto EPIVINF finanziato dall’Unione Europea sta lavorando per comprendere un aspetto specifico della PCC, ovvero l’impatto di SARS-CoV-2 sulla regolazione dei geni dei pazienti infettati e come ciò può incidere sulla salute neurologica a breve termine.

Bibliografia

Animal models to study the neurological manifestations of the post-COVID-19 condition, Usai C et al., Lab Animal 2023, https://doi.org/10.1038/s41684-023-01231-z

Sito internet del progetto EPIVINF: https://www.epivinf.eu/

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