La zanzara tigre (Aedes albopictus)

Con un nome spaventoso da animale mitologico, la zanzara tigre è entrata (letteralmente) nelle nostre case da circa 30 anni. Le punture (tecnicamente sarebbe meglio dire “morsi”) di questo insetto possono avere conseguenze ben più serie oltre a una semplice, seppur fastidiosa, irritazione cutanea.

Vediamo cos’è, da dove viene, perché è pericolosa e cosa possiamo fare per difenderci dalla zanzara tigre.

Cos’è la zanzara tigre?

La zanzara tigre (nome scientifico Aedes albopictus) è una specie invasiva originaria delle foreste tropicali del Sud-Est asiatico arrivata in Europa e nelle Americhe circa 30 anni fa tramite il trasporto accidentale delle sue uova insieme a pneumatici e piante ornamentali di importazione. Il trasporto accidentale delle uova rimane il mezzo di diffusione principale, dato che questo insetto ha una capacità di volo molto limitata (circa 200 metri).

È caratterizzata da corpo e zampe neri con strisce orizzontali bianco-argentate, e una singola banda bianca nell’addome.

Dove vive la zanzara tigre in Europa?

Questa zanzara ha dimostrato una grande capacità di adattamento a diverse condizioni climatiche, grazie alla resistenza delle sue uova alla siccità e al freddo. La sua presenza è stata riportata su tutti i continenti abitati ed è annoverata tra le 100 specie più invasive al mondo.

Il primo avvistamento in Europa risale al 1979, ma la diffusione vera e propria è avvenuta negli anni ’90 dopo l’arrivo in Italia di uova trasportate insieme a materiali di importazione. La zanzara tigre è presente stabilmente in Albania, Italia, Francia, Germania, Belgio, Grecia, Spagna, Slovenia, Bulgaria, Romania, Russia e Turchia ed è stata sporadicamente trovata in Svizzera e nei Paesi Bassi.

(Mappa da https://www.ecdc.europa.eu/en/publications-data/aedes-albopictus-current-known-distribution-february-2023)

Come si è diffusa in tutto il mondo?

In sintesi, la diffusione della zanzara tigre a livello globale è stata favorita da:

GLOBALIZZAZIONE: viaggi e trasporti intercontinentali, flussi migratori;

URBANIZZAZIONE: riduzione della biodiversità e della competizione tra specie;

CAMBIAMENTO CLIMATICO: l’aumento della temperatura favorisce la proliferazione di questi insetti.

Perché è pericolosa la zanzara tigre?

Le femmine di zanzara tigre si cibano del sangue di diverse specie animali (anfibi, rettili, uccelli e mammiferi compreso l’uomo), e la loro pericolosità consiste nel trasmettere virus sia all’interno della popolazione umana, sia tra altre specie animali e l’uomo (zoonosi). Questi insetti sono particolarmente aggressivi e fastidiosi e vanno in cerca di cibo soprattutto durante le ore diurne, sia all’aperto che in ambienti chiusi in presenza di luce artificiale. Gli ambienti interni sono favorevoli per la proliferazione della zanzara tigre quando sono presenti vasi di fiori, bidoni e altri recipienti contenenti acqua.

La zanzara tigre trasmette i virus Dengue (DENV) e Chikungunya (CHIKV), e il parassita Dirofilaria immitis (“verme del cuore del cane”) le cui larve possono invadere anche i polmoni umani.

Molti studi suggeriscono che possa la zanzara tigre possa trasmettere anche altre 22 malattie virali tra cui:

  • Febbre gialla
  • Febbre della Rift Valley
  • Enecefalite giapponese
  • Febbre del Nilo Occidentale
  • Virus Usutu
  • Virus Zika
  • Encefalite equina orientale
  • Encefalite equina occidentale
  • Encefealite equina del Venezuela

In particolare, i virus Dengue e Chikungunya sono stati introdotti in Europa da viaggiatori che si erano infettati in zone dove questi virus sono endemici. I virus sono stati trasmessi tramite la zanzara tigre presente in Europa da questi pazienti a altri individui, causando i primi focolai autoctoni.

Un altro effetto negativo indiretto della presenza di questo insetto è l’aumento dell’obesità infantile, infatti l’aggressività di queste zanzare è tale da ridurre l’attività fisica all’aperto dei bambini.

Quando è attiva la zanzara tigre?

La zanzara tigre che si è stabilita nelle regioni temperate rimane attiva anche durante la stagione invernale. Le uova vengono deposte sulla superficie di acque stagnanti (anche in piccoli recipienti nelle aree urbane) e l’insetto adulto si sviluppa in 3-8 settimane a seconda delle temperature (lo sviluppo è più rapido quando le temperature sono elevate, per questo motivo in Italia la popolazione aumenta tra maggio e settembre). L’habitat preferito da questo insetto sono le zone urbane e suburbane.

Come difendersi dalla zanzara tigre?

L’espansione della zanzara tigre e l’aumento delle temperature nelle zone temperate dovute al cambiamento climatico stanno favorendo la diffusione in Europa di malattie virali tipiche delle zone tropicali. Per questo motivo è estremamente importante monitorare costantemente la presenza di questo insetto sul territorio.

La diffusione della zanzara tigre viene contrastata con l’uso di insetticidi e larvicidi, e con l’eliminazione di depositi di acqua stagnante che ne favoriscono la riproduzione. Anche l’utilizzo controllato del batterio Bacillus thuringiensis israeliensis ser. H14 capacei di infettare questo insetto si è dimostrato utile per ridurne la popolazione. Sono ancora in fase di studio altri metodi come l’introduzione nell’ambiente di maschi sterili o recanti mutazioni letali trasmissibili alla progenie, e l’introduzione di predatori.

Restano validi gli accorgimenti più tradizionali per difendersi dalle punture quali l’uso di repellenti, zanzariere e abiti che coprano braccia e gambe.

Immagine: “Asian tiger mosquito” da openverse.com (Dominio pubblico)

Bibliografia

European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – Aedes albopictus – Factsheet for experts:  https://www.ecdc.europa.eu/en/disease-vectors/facts/mosquito-factsheets/aedes-albopictus

European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – Aedes albopictus – Current known distribution: February 2023 https://www.ecdc.europa.eu/en/publications-data/aedes-albopictus-current-known-distribution-february-2023

Istituto Superiore di Sanità (ISS) – Zanzara tigre https://www.epicentro.iss.it/zanzara/

Invasive mosquito vectors in Europe: From bioecology to surveillance and management, Giunti G. et al., Acta Tropica 2023, https://doi.org/10.1016/j.actatropica.2023.106832

Dengue and chikungunya: future threats for Northern Europe? Laverdeur J. et al., Frontiers in Epidemiology 2024, https://doi.org/10.3389/fepid.2024.1342723

The Asian Tiger Mosquito (Aedes albopictus)

With a scary name reminding of a mythological creature, the Asian Tiger Mosquito has made itself at home in the temperate areas of Europe. The consequences of its bite can be more concerning than a simple, but surely annoying, cutaneous rush.

Let’s see what the Asian Mosquito Tiger is, where it comes from, why it is dangerous, and how to prevent its bites.

What is the Asian Tiger Mosquito?

The Asian Tiger Mosquito (Aedes albopictus) is an invasive species from the tropical forests of Southeast Asia; it arrived in Europe and the Americas about 30 years ago through the accidental transport of eggs laid on imported tyres and plants. Accidental human-mediated transport is the major cause of its spreading since this insect has a restricted flight range (about 200 metres).

It has black legs and body with white/silver horizontal stripes and a single white band on the abdomen.

Where can we find the Asian Tiger Mosquito in Europe?

This mosquito has shown great adaptability to a wide range of climate conditions, being resistant to both drought and cold. It has been reported on all inhabited continents and is considered among the 100 most invasive species in the world.

It was first detected in Europe in 1979, but the massive spreading started in the 90s when eggs were accidentally carried to Italy through imported goods. The Asian Mosquito Tiger is now established in Albania, Italy, France, Germany, Belgium, Greece, Spain, Slovenia, Bulgaria, Romania, Russia, and Turkey, and its presence has been sporadically reported in Switzerland and the Netherlands.

(Map from https://www.ecdc.europa.eu/en/publications-data/aedes-albopictus-current-known-distribution-february-2023)

How did the Asian Tiger Mosquito spread globally?

In a few words, the global spread of the Asian Tiger Mosquito has been promoted by:

GLOBALISATION: intercontinental travel and commerce, migration;

URBANISATION: reduction of biodiversity and competition between species;

CLIMATE CHANGE: higher temperatures induce the proliferation of this mosquito species.

Why is the Asian Tiger Mosquito dangerous?

Female Asian Tiger mosquitos feed on the blood of several animal species (amphibians, reptiles, birds, and mammalians including humans), therefore they can transmit viruses both within the human population and from animals to humans (zoonosis). These mosquitos are particularly aggressive and annoying and bite mostly during daylight both outdoors and indoors with artificial light. They take advantage of closed environments with plant vases, cans and other water containers.

The Asian Tiger Mosquito transmits Dengue (DENV) and Chikungunya (CHIKV) viruses, as well as the parasite Dirofilaria immitis (the “heartdog warm”) that can infest human lungs.

Several studies suggest that the Asian Tiger Mosquito can transmit 22 other viral diseases including:

  • Yellow Fever
  • Rift Valley Fever
  • Japanese Encephalitis
  • West Nile Disease
  • Usutu Virus
  • Zika Virus
  • Eastern Equine Encephalitis
  • Western Equine Encephalitis
  • Venezuelan Equine Encephalitis

In particular, Dengue and Chikungunya viruses have been introduced in Europe by returning travellers who became infected in areas where these viruses are endemic. The viruses were then transmitted by the Asian Tiger mosquitos already present in Europe to other people, causing the first autochthonous outbreaks.

Another indirect negative effect of the presence of this insect is the increase in infant obesity rate: it is so aggressive that it causes a reduction in children’s outdoor activities.

When is the Asian Tiger Mosquito active?

The Asian Tiger Mosquito can stay active during the winter season in temperate regions. The eggs are laid on the surface of stagnant water (even in small containers in urban areas) and the adult mosquito will develop in 3-8 weeks depending on the temperature (development speeds up at higher temperatures, this is why in Italy and Southern Europe the Asian Tiger Mosquito population peaks between May and September). Its favourite habitats are urban and peri-urban areas.

How to prevent Asian Tiger Mosquito bites?

Asian Tiger Mosquito invasion and the warming of temperate regions due to climate change enhance the spreading of tropical viral diseases in Europe. For this reason, it is crucial to constantly monitor the presence of this insect on the territory.

The proliferation of the Asian Tiger Mosquito can be counteracted with insecticides and larvicides, and by avoiding stagnant water reservoirs. The controlled use of the bacteria Bacillus thuringiensis israeliensis ser. H14, able to infect this insect, has proven helpful in reducing the mosquito population. Other methods like the release in the environment of male mosquitos either sterile or carrying a lethal mutation to be transmitted to the progeny, and the introduction of predators are under consideration.

Traditional precautions like repellents, mosquito nets and long-sleeve clothes are also useful.

Image: “Asian tiger mosquito” from openverse.com (Public domain)

Bibliography

European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – Aedes albopictus – Factsheet for experts:  https://www.ecdc.europa.eu/en/disease-vectors/facts/mosquito-factsheets/aedes-albopictus

European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – Aedes albopictus – Current known distribution: February 2023 https://www.ecdc.europa.eu/en/publications-data/aedes-albopictus-current-known-distribution-february-2023

Istituto Superiore di Sanità (ISS) – Zanzara tigre https://www.epicentro.iss.it/zanzara/ (Italian only)

Invasive mosquito vectors in Europe: From bioecology to surveillance and management, Giunti G. et al., Acta Tropica 2023, https://doi.org/10.1016/j.actatropica.2023.106832

Dengue and chikungunya: future threats for Northern Europe? Laverdeur J. et al., Frontiers in Epidemiology 2024, https://doi.org/10.3389/fepid.2024.1342723

La Lingua Blu (Bluetongue)

Se anche voi come me vivete nel bacino del Mediterraneo, avete sicuramente sentito parlare di una malattia chiamata Lingua Blu. Facciamo un po’ di chiarezza su cos’è la Lingua Blu, cosa la causa e come si può prevenire.

Cos’è la Lingua Blu e come si trasmette?

La Lingua Blu (Bluetongue Disease, in inglese) è una malattia infettiva che colpisce prevalentemente i ruminanti, ed è causata dal virus della Lingua Blu (Bluetongue Virus, BTV). È conosciuta anche come febbre catarrale degli ovini.

È una malattia non contagiosa perché non si trasmette direttamente da un animale all’altro, bensí attraverso un insetto vettore che trasporta il virus. Gli insetti del genere Culicoides acquisiscono il virus della Lingua Blu nutrendosi del sangue di un animale infetto, e lo trasmettono agli altri animali quando li pungono per alimentarsi. Il virus si replica all’interno dell’insetto, che continua a trasmetterlo per tutta la sua vita adulta. Sono gli insetti femmina a nutrirsi del sangue degli animali, e pertanto sono le uniche a poter trasmettere il virus.

La Lingua Blu è una malattia che colpisce animali da allevamento (soprattutto ovini, ma anche bovini e caprini) causando ingenti perdite economiche stimate in 3 miliardi di dollari all’anno. È diffusa globalmente, in concomitanza con la presenza stagionale dei Culicoides, ed è endemica in Europa e nel bacino del Mediterraneo. La Nuova Zelanda e l’Antartide sono gli unici territori in cui il virus della Bluetongue non è stato ancora trovato.

L’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (World Organization for Aimal Health, WOAH) ha stabilito che la Bluetongue è una malattia di dichiarazione obbligatoria: la presenza di animali malati deve essere comunicata alle autorità sanitarie.

Quali sono le specie colpite dalla Lingua Blu?

Tutti ruminanti possono essere infettati dal virus della Lingua Blu, compresi quelli selvatici. La Bluetongue è una malattia molto pericolosa per le pecore: sono la specie più colpita e la malattia può essere mortale fino al 70% dei casi.

Il virus della Bluetongue può infettare anche i bovini, ma i sintomi sono molto lievi. Nonostante ciò è estremamente importante prevenire l’infezione dei bovini: il virus, infatti, resta nel sangue dei bovini per circa 60 giorni, costituendo una riserva importante per gli insetti che si cibano del loro sangue, e quindi contribuiscono alla persistenza del virus sul territorio.

Questo virus non infetta gli esseri umani, quindi la Bluetongue non è una zoonosi.

Quali sono i sintomi?

I sintomi della Bluetongue sono febbre, congestione nasale, congiuntivite, secrezioni e edema delle mucose. Nelle forme gravi la lingua degli animali infettati si gonfia e diventa cianotica (blu) fuoriuscendo dalla bocca: questa manifestazione tipica negli animali colpiti ha dato il nome alla malattia. Se il virus infetta femmine gravide può causare aborto o malformazione dei feti. Nei casi gravi la morte sopraggiunge in 8—10 giorni, oppure l’animale può sopravvivere con una guarigione molto lenta accompagnata da perdita del pelo, sterilità e un rallentamento della crescita.diseases is at the origin of its name.

Com’è fatto il virus della Bluetongue?

Il Bluetongue virus (BTV) è un virus molto complesso e appartiene al genere degli Orbivirus. Le ricerche fatte negli ultimi 30 anni hanno permesso di capirne la struttura e il funzionamento, e ha aiutato la comprensione di altri virus simili.

Modificato da Bluetongue virus core particle di Jonathan Grimes, University of Oxford, su lincenza CC BY 4.0.

Il genoma del BTV è diviso in 10 segmenti di RNA a doppia elica che formano degli anelli dentro un primo involucro formato da proteine (capside interno); insieme formano la cosiddetta “core particle”, a sua volta racchiusa da un capside esterno, per formare il virus completo.

Il virus della Bluetongue esiste in almeno 27 forme leggermente diverse tra loro (sierotipi) che determinano la gravità della malattia. Alcuni sierotipi, tra cui il sierotipo 8 (BTV-8) responsabile del grave focolaio europeo del 2006, possono essere trasmessi attraverso la placenta causando aborti o malformazioni fetali.

Come si cura la malattia della Lingua Blu?

Non esiste una terapia in grado di limitare o curare i sintomi della Lingua Blu.

Gli animali possono essere però vaccinati  contro il sierotipo del virus della Bluetongue presente sul territorio. Si tratta di un vaccino vivo attenuato, ovvero di un virus che pur non causando la malattia è capace di replicarsi, perciò non può essere somministrato durante la stagione in cui sono presenti i vettori perché potrebbe ricombinare al loro interno con il virus infettivo. Inoltre, questo vaccino non può essere somministrato alle femmine gravide, perché potrebbe causare aborti come il virus stesso.

Non esiste ancora un vaccino che protegga contro tutti i sierotipi del virus della Lingua Blu.

Come prevenire la malattia?

La vaccinazione è uno degli strumenti per proteggere gli animali dalla malattia, diminuire il numero di capi infettatti e di conseguenza limitare la diffusione del virus della Bluetongue riducendo la riserva a disposizione degli insetti vettori.

Esistono altri metodi indiretti per prevenire la diffusione del virus della Lingua Blu. Uno di questi è il controllo della popolazione di insetti vettori: limitare la presenza di acqua stagnante dove gli insetti possano deporre le uova è un accorgimento alla portata di tutti (evitare l’accumulo di acqua in sottovasi e fioriere, svuotare regolarmente gli abbeveratoi, etc). Nei territori in cui il virus sta circolando, gli animali possono essere protetti con delle zanzariere e applicando insetticidi nelle zone colpite.

Un altro metodo di prevenzione della diffusione della Bluetongue è il controllo della movimentazione dei capi, che viene esteso anche al trasporto di sperma o embrioni per la riproduzione delle specie suscettibili. Sono le autorità sanitarie locali a stabilire tempistiche e modalità dello spostamento dei capi tra zone in cui il virus è presente e zone libere dal virus della Lingua Blu.

Bibliografia

Foto: “Sheeps – Balwen Welsh Mountain (black)” di Alexandre Dulaunoy su licenza CC BY-SA 2.0.

The Bluetongue Disease

If you, like me, live in the Mediterranean basin, you have probably heard about the Bluetongue Disease. Let’s see together what the Bluetongue Disease is, what causes it, and how to prevent it.

What is Bluetongue, and how does it spread?

The Bluetongue Disease is an infectious disease of the ruminants, and it is caused by the Bluetongue virus (BTV). It is also known as catarrhal fever.

It is a non-contagious disease since it is not directly transmitted from animal to animal: in fact, it is transmitted through the bite of an insect (vector). The Culicoides insects acquire the Bluetongue virus when they feed on the blood of infected animals, and they transfer it by biting other animals in subsequent blood meals. The virus replicates inside the vectors during their entire lives. Only female Culicoides feed on animal blood and therefore can transmit the virus.

Since Bluetongue affects livestock (mainly sheep, but also cattle and goats), it causes great economic loss, estimated at 3 billion dollars per year. This disease is present globally together with the seasonal presence of Culicoides, being endemic in Europe and the Mediterranean basin. New Zealand and Antarctica are the only territories where the Bluetongue virus has not been found so far.

According to The World Organization for Animal Health (WOAH), Bluetongue is a disease of mandatory notification: it is mandatory to report the presence of infected animals to the health authorities.

What species are affected by the Bluetongue disease?

Both domestic and wild ruminants can be infected by the Bluetongue virus. The Bluetongue disease is especially severe in sheep: they are the most affected species, with a mortality of up to 70%.

The Bluetongue virus can infect also cattle, but the symptoms of the infection in this species are very mild. Nevertheless, it is extremely important to prevent infection in cattle: the virus remains in their blood for up to 60 days, being an important reservoir for the insects that feed on them, and therefore contributing to the persistence of the virus in the territory.

The Bluetongue virus does not infect humans: the Bluetongue disease is not a zoonosis.

What are the symptoms of Bluetongue?

The symptoms of the Bluetongue disease are fever, nasal congestion, mucosal oedema and secretion. In severe cases, the tongue of the infected animals is swollen and cyanotic (blue) and protrudes from the mouse: this typical manifestation of the disease is at the origin of its name. When the virus infects pregnant female animals, it may lead to abortions and foetal malformations. In the most severe cases, the infected animal dies within 8-10 days, or it may slowly recover after a long period characterised by hair loss, sterility and growth delay.

What does the Bluetongue virus look like?

The Bluetongue virus (BTV) is a complex virus, belonging to the Orbivirus genus. Thanks to studies from the last 30 years we now understand its structure and mechanisms, as well as those from other similar viruses.

£D rendering of a Bluetongue virion structure showing each protein in different colours. A section of a portion of the virion shows the RNA rings, the inner capsid, and the outer capsid.
Adapted from Bluetongue virus core particle by Jonathan Grimes, University of Oxford, licensed under CC BY 4.0.

The BTV genome is organised in 10 segments of double-stranded RNA, arranged in rings inside a protein envelope (inner capsid); together they constitute the core particle, surrounded by an outer capsid to form the complete virus.

The Bluetongue virus exists in at least 27 slightly different forms (serotypes) that determine the severity of the disease. Some serotypes, including serotype 8 (BTV-8) responsible for the 2006 outbreak in Europe, can cross the placental barrier causing abortions or foetal malformations.

Is there a treatment for Bluetongue?

There is no therapy to limit or cure the symptoms of Bluetongue.

Animals can be vaccinated against the serotype of the Bluetongue virus circulating on the territory. It is a live attenuated vaccine, in other words, it is a virus that does not cause the disease, but can still replicate. For this reason, this kind of vaccine cannot be administered during the Culicoides season, because it might recombine with the original virus inside the insect. Moreover, this vaccine cannot be administered to pregnant female animals, because it may cause abortions.

To date, a vaccine able to protect against all Bluetongue serotypes is not available.

How can we prevent the Bluetongue disease?

Vaccination is one of the tools in our hands to protect animals from the disease, to reduce the number of infected animals, and therefore limit the spread of the Bluetongue virus by restricting the reservoir available to its vectors.

There are also indirect methods to prevent the spread of the Bluetongue virus. One of them is the control of the vector population: reducing the presence of stagnant water where insects lay their eggs is something that all of us can contribute to (avoiding the accumulation of water in plant saucers and flowerpots, regularly cleaning drinking troughs, etc). In areas where the virus is present, animals can be protected by physical barriers (mosquito nets) and by the use of insecticides.

Another method to prevent the transmission of Bluetongue is the control of animal transportation, including also semen and embryos for breeding purposes. Local health authorities determine when and how livestock transportation between affected areas and virus-free areas can be performed.

Bibliography

Image: “Sheeps – Balwen Welsh Mountain (black)” by Alexandre Dulaunoy is licensed under CC BY-SA 2.0.

Memory Speaks di Julie Sedivy

Ho da poco terminato di leggere “Memory speaks. On losing and reclaiming language and self” di Julie Sedivy, un saggio sul multilinguismo ricamato sull’esperienza personale dell’autrice, nata in Repubblica Ceca ed emigrata in Canada da bambina.

La Sedivy riassume tutto ciò che si sa sul funzionamento del cervello delle persone poliglotte (che lo siano sempre state o che abbiano acquisito una seconda o terza lingua in varie fasi della vita), spiega come alcune lingue prevalgano su altre in base all’utilizzo che se ne fa, e fornisce esempi di strategie in uso per conservare lingue in via d’estinzione.

Io stessa sono multilingue: di madrelingua italiana parlo con naturalità il castigliano (imparato a 25 anni grazie a un’immersione linguistica quasi assoluta di sei mesi a Madrid) e fluidamente l’inglese (imparato a scuola e perfezionato a Londra). Nella mia famiglia si parlano anche il sardo e il gallurese – che conosco perfettamente ma non uso – ho studiato un po’ di francese, tedesco e basco, e ora sento parlare quotidianamente il catalano – che comprendo parzialmente.

Per questo ho letto questo saggio avidamente, riconoscendomi in molte delle situazioni descritte, e fermandomi a riflettere sull’uso che faccio e sul legame personale che sento nei confronti di ciascuna delle lingue a cui sono stata esposta nel corso della mia vita.

Il libro è suddiviso in capitoli dai titoli emblematici che analizzano vari aspetti dell’apprendimento e della perdita di una lingua basandosi su studi scientifici nel campo della linguistica, psicologia e neuroscienze:

Death – Dream – Duality – Conflict – Revival – Home

Nel primo capitolo l’autrice cita la linguista Salikoko Mufwene, che paragona l’evoluzione delle lingue alla diffusione di un virus. Un virus non può vivere senza un ospite in cui moltiplicarsi, e si diffonde grazie alle interazioni che l’ospite ha con altri individui. La sopravvivenza e diffusione delle lingue dipende dalle persone che le parlano e dalle loro interazioni, proprio come i virus. Nel caso delle lingue però, non basta che due persone stiano vicine o in contatto: è necessario uno scambio costante nelle due direzioni e che possibilmente coinvolga molte più persone.

Ho trovato particolarmente interessante il capitolo “Dreams” che inizia con la frase “Success speaks English”. Io stessa uso l’inglese come lingua principale nella mia professione: è la lingua franca usata dagli scienziati per comunicare i risultati dei propri studi e ho sempre sostenuto che parlare bene l’inglese sia fondamentale per essere uno scienziato di successo.

In “Duality” vengono descritti esperimenti in cui persone bilingue reagivano in maniera diversa alla stessa situazione quando questa veniva descritta in lingue diverse, come se le lingue avessero il potere di plasmare la realtà e la nostra personalità (una sensazione più che familiare).

E il capitolo “Conflict” fa riflettere su quanto le lingue, spesso usate per indicare e rivendicare l’appartenenza a un gruppo, possano allo stesso tempo costituire una barriera: se parli la nostra lingua sei dei nostri, se non la parli non appartieni a questa comunità.

Sono tante le risposte che ho trovato in questo libro e tanti gli spunti di riflessione: esistono lingue più importanti di altre? un concetto può variare a seconda della lingua in cui viene espresso? È un bene o un male che lingue diverse si influenzino tra loro? Siamo ancora in tempo per salvare le lingue che stanno scomparendo?

Una lettura fortemente consigliata a tutte le persone multilingue per capire meglio stesse, e a tutte le persone monolingue per capire meglio il mondo.

Cosa sappiamo sul long-COVID-19

Ora che ci siamo lasciati alle spalle la fase di emergenza della pandemia di COVID-19 dobbiamo fare i conti con le conseguenze a lungo termine.

Circa il 40% delle persone che hanno avuto il COVID-19 negli ultimi tre anni ha continuato ad avere dei sintomi addirittura mesi dopo l’infezione iniziale. Questa condizione venne chiamata “long-COVID” dai pazienti stessi, i primi a dare visibilità a questa situazione tramite i social, ed è ora ufficialmente definita “post-COVID-19 condition” (PCC, condizione post-COVID-19).

Quali sono i sintomi del long-COVID?

I sintomi più comuni del long-COVID sono affaticamento, affanno, dolori diffusi, tachicardia, alterazione del senso del gusto e dell’olfatto, mal di testa e una lunga lista di disturbi neurologici e psicologici. I pazienti spesso usano l’espressione “brain fog” – o mente annebbiata – per descrivere la difficoltà a concentrarsi e la perdita di memoria a breve termine. Anche disturbi del sonno, ansia e depressione sono sintomi riportati con frequenza.

Questi sintomi possono o continuare dopo l’infezione acuta (quando ormai il test per il COVID-19 risulta negativo) o possono comparire settimane dopo la fine della malattia, anche se questa non si era manifestata in forma grave.

Chi è più a rischio di long-COVID?

Considerando che centinaia di migliaia di persone sono state infettate da SARS-CoV-2, il numero di persone che rischiano di avere conseguenze a lungo termine è elevatissimo. La PCC rappresenta quindi non solo un problema sanitario ma anche sociale, perché peggiora la qualità della vita delle persone colpite riducendone la capacità di lavorare e di partecipare in altre attività sociali. La PCC è più frequente nelle donne, mentre le probabilità di avere una forma grave di COVID-19 è più alta negli uomini.

Quali sono le cause del long-COVID?

Le cause e i meccanismi della PCC non sono conosciuti a livello molecolare, per cui non è ancora dispoinibile una cura per i pazienti che ne soffrono. Gli studi sugli animali sono stati estremamente utili per capire i meccanismi del COVID-19 e per testare vaccini e antivirali, e ora ci stanno aiutando a capire alcuni aspetti della PCC. Nessuno dei modelli animali disponibili finora riproduce perfettamente la malattia umana, ma studi condotti su varie specie hanno prodotto risultati molto interessanti.

Studiare gli animali per capire gli effetti del long-COVID sul cervello

Criceti e topi hanno permesso lo studio del COVID-19 fin dall’inizio della pandemia.

È stato scoperto che criceti infettati con SARS-CoV-2 esprimono in modo alterato gruppi specifici di geni nel cervello un mese dopo l’infezione, quando il virus non è più presente. Questi criceti, rispetto a quelli che non hanno mai avuto l’infezione, esprimono alti livelli di geni convolti nell’infiammazione. Un altro studio ha rilevato segni di infiammazione nel cervello come l’accumulo delle forme modificate di due proteine chiamate tau e alfa sinucleina due settimane dopo l’infezione con SARS-CoV-2. Questi risultati sono particolarmente interessanti perché l’accumulo di tau e alfa sinucleina modificate è tipico di malattie neurodegenerative (Parkinson e Alzheimer), e suggeriscono meccanismi simili tra queste malattie e la PCC.

Inoltre, con degli studi comportamentali si è visto che i criceti infettati sono meno attivi e hanno una maggiore sensibilità al dolore, ricordando alcuni dei sintomi riportati dai pazienti con PCC, forse dovuti a una prolungata infiammazione del sistema nervoso.

In studi simili svolti sui topi è stata osservata un’infiammazione persistente del cervello dopo l’infezione con SARS-CoV-2, anche se i sintomi respiratori erano stati lievi e senza che ci fossero tracce di virus nel cervello. Anche in questo caso l’infiammazione era accompagnata da modifiche dell’attività di alcuni geni come nei disturbi cognitivi tipici dell’Alzheimer e dell’invecchiamento.

I vaccini proteggono dal long-COVID?

La maggior parte di questi studi sono stati svolti su animali non vaccinati che sono stati infettati in laboratorio con la variante iniziale di SARS-CoV-2. Sappiamo bene però che dall’inizio della pandemia sono comparse molte varianti diverse e che un numero sempre maggiore di persone ha ricevuto una o più dosi del vaccino anti COVID-19, potenziando la capacità del nostro corpo di combattere l’infezione.

Ciò fa sorgere due domande fondamentali:

  1. Le differenze tra varianti influiscono sulla probabilità di avere long-COVID-19 dopo l’infezione e sull’intensità dei sintomi?
  2. Visto che si può avere il long-COVID anche quandosi ha avuto l’infezione dopo essere stati vaccinati, la malattia in questo caso è diversa da quella di individui non vaccinati?

Che studi sono necessari per capire il long-COVID?

Un solo modello animale non sarebbe sufficiente per comprendere appieno il long-COVID-19 e capire come affrontarlo; servirebbero tante combinazioni di varianti, status vaccinali e caratteristiche genetiche.

Non si tratta di un compito facile: così tanti fattori da considerare e tale varietà di sintomi richiedono esperimenti molto complessi. Il gruppo di cui faccio parte insieme ad altri membri del progetto EPIVINF finanziato dall’Unione Europea sta lavorando per comprendere un aspetto specifico della PCC, ovvero l’impatto di SARS-CoV-2 sulla regolazione dei geni dei pazienti infettati e come ciò può incidere sulla salute neurologica a breve termine.

Bibliografia

Animal models to study the neurological manifestations of the post-COVID-19 condition, Usai C et al., Lab Animal 2023, https://doi.org/10.1038/s41684-023-01231-z

Sito internet del progetto EPIVINF: https://www.epivinf.eu/

Understanding long-COVID-19

Now that the emergency phase of the COVID-19 pandemic has officially ended, we are left to face its long-term consequences. About 40% of patients who had COVID-19 in the past three years have experienced symptoms months after the infection when they are no longer contagious. This condition was initially defined as long-COVID by the patients – the first to raise attention to their long-lasting symptoms using social media – and is now known as post-COVID-19 condition (PCC).

What are the symptoms of long-COVID?

The most common symptoms of long-COVID are fatigue, shortness of breath, pain, increased heart rate, altered sense of taste and smell, headache, and a long list of neurological and psychological impairments. Patients often describe their difficulty with concentration and short-term memory using the powerful expression “brain fog”; sleep disorders, anxiety, and depression are also common complaints. These symptoms can either persist after the acute infection (with negative COVID-19 tests at this point) or develop weeks after the end of the disease, even if it was mild.

Who is most at risk of long-COVID?

Given the hundreds of thousands of individuals who have been infected by SARS-CoV-2 so far, the number of people at risk of suffering long-term consequences is very high. PCC represents both a healthcare burden and a societal problem, since it severely impacts the quality of life, reducing the ability to work and engage in social activities. Interestingly, PCC is more frequent in females, while the chances of having severe acute COVID-19 are higher in males.

Why does long-COVID happen?

The causes and mechanisms of PCC are yet to be characterised at the molecular level, leaving patients suffering from this condition without proper treatment. The study of animal models, extremely helpful in understanding acute COVID-19 and in testing vaccines and treatments, is helping to unveil some of the aspects of long-COVID. To date, no animal model fully reproduces this disease as it occurs in humans, but several studies conducted on different species have yielded interesting results.

Animals to understand how long-COVID affects the brain

Hamsters and mice have been employed to study COVID-19.

Hamsters infected with SARS-CoV-2 had a modified expression of specific genes in the brain one month after infection when the virus was no longer detectable. These animals, compared to those that were never infected, over-express genes involved in inflammation. Another study has found inflammation and accumulation of altered forms of two proteins called tau and alpha-synuclein in the brain of hamsters two weeks after infection with SARS-CoV-2. This is particularly interesting because the accumulation in the brain of these modified proteins is a feature of neurodegenerative diseases (like Parkinson’s and Alzheimer’s), suggesting similar mechanisms between these three conditions. Moreover, behavioural studies have shown that infected hamsters have reduced spontaneous activities and increased sensitivity to pain, resembling some of the neurological symptoms reported by patients, probably due to a continuous inflammation of the nervous system.

Similarly, long-term inflammation of the brain after infection with SARS-CoV-2 has been found in mice, even when the respiratory disease was mild, and the virus was not detectable in the brain. Once again, inflammation was accompanied by altered gene expression suggestive of cognitive impairment like in ageing and Alzheimer’s disease.

Does vaccination protect from Long-COVID?

Importantly, most of the studies published so far involve non-vaccinated animals infected with the original strain of SARS-CoV-2, but since the beginning of the pandemic several variants have emerged, and a growing number of people have been vaccinated worldwide, improving our ability to fight the infection.

This brings up two important questions:

  1. Do the differences between variants influence the risk of having long-COVID and the intensity of the symptoms?
  2. Since long-COVID can still occur when infected after vaccination, is it different from the disease developed by non-vaccinated individuals?

What kind of studies about long-COVID will be needed?

To really understand how to tackle the long-COVID problem, more than one animal model will be necessary, with different combinations of variants, vaccination status, and genetic backgrounds. This is not an easy task: with so many factors to consider and such a wide range of possible outcomes, complex experiments will be needed.

Our research group, together with the other members of the EU-funded EPIVINF project, is working to understand a specific aspect of PCC: the impact of SARS-CoV-2 on the regulation of the host gene expression and how it can affect neurological health in the long term.

Bibliography:

Animal models to study the neurological manifestations of the post-COVID-19 condition, Usai C et al., Lab Animal 2023, https://doi.org/10.1038/s41684-023-01231-z

Website of the EPIVINF project: https://www.epivinf.eu/

Io e Londra – Memorie di una pandemia

Sono stata a Londra qualche giorno fa: un fine settimana lungo per ritrovare gli amici, passeggiare tra luoghi familiari e scoprirne di nuovi.

Continua a stupirmi come Londra mi faccia sentire a casa nonostante sia una metropoli, e nonostante ci abbia vissuto solo per poco più di due anni.

Certo, non due anni qualsiasi.

Mi trasferii a Londra nel settembre del 2019, pochi mesi prima che le nostre vite venissero stravolte. Appena il tempo di adattarmi alla nuova città e al nuovo lavoro. Ero a Londra quando venni a sapere di un nuovo virus emergente in Cina, quando furono individuati i primi preoccupanti casi in Europa e quando l’OMS dichiarò la pandemia. Ero a Londra quando iniziai a scrivere su questo blog, e quando, come molti altri scienziati, reindirizzai il mio lavoro per cercare di posizionare qualche tassello di questo immenso puzzle scientifico, ancora oggi incompleto.

La pandemia è il maggior trauma collettivo che abbia vissuto nella mia vita adulta. Mi sono ritrovata da sola in un paese straniero, da dove guardavo con incredulità le notizie che arrivavano dall’Italia, il primo paese europeo colpito così ferocemente dalla pandemia – il mio paese, al quale però non potevo tornare.

Nonostante ciò, custodisco con tenerezza i ricordi della mia vita a Londra.

È merito delle persone che avuto al mio fianco durante quei due anni (sono stata ospite di alcune di loro durante la mia ultima visita) che non mi hanno mai fatto sentire sola. Qualcuno mi ha detto che non sentiamo nostalgia dei posti, bensì dei tempi. Ovviamente non sento la nostalgia della paura, dell’incertezza e dell’angoscia che abbiamo provato nel 2020, ma sono stati senza dubbio tempi di intense emozioni condivise da tutti noi, che in qualche modo ci hanno unito.

Sarà impossibile dimenticare quei tempi e quelle sensazioni, e Londra avrà sempre un posto speciale nel mio cuore.

Foto di Carla Usai. The National COVID Memorial, St Thomas Hospital, London (UK).

London and me – Memories of a pandemic

I have been to London recently: a long weekend catching up with friends, strolling around familiar places, and discovering new ones.

Once again, it has struck me how London makes me feel at home, even if it is a metropolis and I lived there only for a little more than two years.

Two years like no other.

I moved to London in September 2019, and I had only a few months to adjust to the new city and workplace before our lives were turned upside-down. I was in London when I heard a new virus had emerged in China, when the first cases in mainland Europe were worryingly reported, and when the WHO declared the pandemic. I was in London when I started my science communication blog, and when, like many other scientists, I redirected the focus of my research, trying to add small pieces to this still uncompleted scientific puzzle.

The COVID-19 pandemic has been the strongest collective trauma I have experienced in my adult life. I found myself alone in a foreign country, watching in dismay what was happening in Italy, the first European country fiercely hit by the pandemic – my home country to which I was not allowed to return.

Despite all this, I have very fond memories of my time in London.

For that, I have to thank the people I was surrounded by (some of them were my gracious hosts during my last visit) that never made me feel alone. Someone told me that we miss the times, not the places. I surely do not miss the fear, the uncertainty, and the sorrow we experienced in 2020, but it undoubtedly was a time of deeply felt and collectively shared emotions that brought us together.

I will never forget those times, I will never forget those feelings, and London will always hold a special place in my heart.

Photo by Carla Usai. The National COVID Memorial, St Thomas Hospital, London (UK).

Come si lavora con i virus?

A sinistra: pittogramma che indica il rischio biologico. A destra: io e la mia collega Núria (di spalle) all’interno di un laboratorio di biosicurezza di livello 3.

Se conosci i tuoi nemici e conosci te stesso, non avrai paura del risultato neanche in cento battaglie”, diceva il generale cinese Sun Tzu.

Come i nemici da affrontare in battaglia, anche i virus possono essere molto diversi tra loro, ciascuno con le proprie armi per causare malattie e le proprie strategie per trasmettersi da un individuo a un altro. Conoscere le caratteristiche dei nostri nemici e le nostre armi specifiche di difesa e contrattacco (la disponibilità di vaccini o cure efficaci) ci permette di assegnare a tutti i virus e microrganismi in generale una classe di rischio biologico e di comportarci di conseguenza.

  • Microrganismi di classe 1: non causano nessuna malattia
  • Microrganismi di classe 2: causano malattie nell’uomo o negli animali, rappresentano un rischio moderato per la collettività, esiste un vaccino efficace
  • Microrganismi di classe 3: causano malattie molto gravi, si propagano facilmente, esiste un vaccino efficace
  • Microrganismi di classe 4: causano malattie molto gravi, si propagano facilmente, non esiste un vaccino o una cura efficace

Ad ogni classe di rischio biologico corrisponde un livello di biosicurezza, ovvero un insieme di norme specifiche descrivono il tipo di dispositivi di protezione individuali (per l’operatore) e collettivi (per le altre persone e l’ambiente), ma anche il tipo di struttura in cui questi microorganismi possono essere maneggiati.

In passato ho lavorato con i virus dell’epatite HBV e HDV e attualmente lavoro con SARS-CoV-2: tutti questi virus appartengono alla classe 3, e tutti gli studi devono essere svolti in una struttura appropriata chiamata laboratorio di biosicurezza di livello 3.

Un laboratorio di questo tipo non è direttamente accessibile dall’esterno, ma è preceduto da almeno un’anticamera con una doppia porta. La pressione all’interno del laboratorio è inferiore alla pressione degli ambienti circostanti, per far sì che l’aria si sposti esclusivamente dall’esterno verso l’interno del laboratorio impedendo la fuoriuscita di qualsiasi tipo di materiale volatile, tra cui i virus. Come ulteriore misura di sicurezza, in questi laboratori è proibito lavorare da soli.

Per lavorare con SARS-CoV-2 e gli altri microrganisi di classe 3 è necessario indossare due tute: quella a diretto contatto con il corpo è impermeabmile e lavabile, mentre quella a contatto con l’ambiente è impermeabile e usa e getta. La tuta esterna è dotata di un cappuccio, e ha una cerniera che deve essere chiusa completamente fino a coprire tutto il collo. Indossiamo anche due paia di guanti; il guanto esterno è più lungo e copre completamente il polsi e parte dell’avambraccio. Anche la parte della caviglia tra la scarpa e il bordo inferiore della tuta deve essere coperto da un materiale impermeabile.

Il naso e la bocca devono essere coperti da una mascherina FFP3, e per di più indossiamo un cappuccio con visiera collegato tramite un tubo a un respiratore (Powerd Air-purifying respirator, PAPR) che teniamo allacciato in vita come se fosse un marsupio. Il respiratore ha un motore e dei filtri, e pompa continuamente aria pulita dentro il cappuccio. In questo modo anche dentro il cappuccio si forma una differenza di pressione che permette l’ingresso unicamente dell’aria filtrata.

Dentro il laboratorio il virus può essere manipolato solo all’interno di una cappa di sicurezza biologica, ovvero un ambiente di lavoro delimitato, aperto parzialmente su un solo lato e dotato di filtri. Sul lato aperto viene creato un flusso d’aria verticale con una duplice funzione: 1) fa in modo che l’aria che entra venga diretta immediatamente verso i filtri prima di entrare in circolo nell’ambiente di lavoro e 2) impedisce che l’aria e i microrganismi con cui si sta lavorando escano dalla cappa. In questo modo si garantisce che il materiale biologico non venga contaminato e che l’operatore possa lavorare in sicurezza.

Solo gli avambracci dell’operatore entrano dentro la cappa biologica, il resto del corpo è separato dall’ambiente di lavoro da una lastra di vetro. Ogni volta che l’operatore interrompe il lavoro dentro la cappa per spostarsi in un’altra postazione all’interno dello stesso laboratorio deve disinfettare la parte esposta al virus (mani e avambracci coperti dai doppi guanti) con una sostanza viricida; lo stesso procedimento deve essere applicato a qualsiasi oggetto che venga portato fuori dalla cappa.

Una volta terminato il lavoro e messi in sicurezza i campioni biologici contenenti il virus, la cappa biologica, l’interno laboratorio e gli indumenti dell’operatore potenzialmente esposti al virus devono essere disinfettati.  Gli strati di dispositivi che proteggono l’operatore devono essere rimossi in un ordine ben preciso. Il cappuccio e il respiratore vengono disinfettati e riposti in contenitori con chiusura ermetica fino al prossimo utilizzo. Guanti, sovrascarpe, mascherina e tuta esterna vengono smaltiti come materiale potenzialmente contaminato

Per uscire dalla struttura di livello 3 bisogna passare attraverso una doccia automatica per evitare che residui del materiale di lavoro vengano portati all’esterno. L’accesso ai laboratori di livello 3 o superiore è strettamente limitato al personale autorizzato, per assicurare che tutte le procedure vengano eseguite correttamente che e il lavoro sia svolto nella massima sicurezza sia per l’operatore che per la collettività.

Bibliografia

Biosafety in Microbiological and Biomedical Laboratories (BMBL) 6th Edition | CDC Laboratory Portal | CDC

Laboratory biosafety manual, 4th edition (who.int)

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